martedì 13 settembre 2011

DIEGO MARANI PRESENTA "AL ZANET INSPIRTA'"



Lo so che questo blog non dovrebbe funzionare così, che gli eventi andrebbero recensiti immediatamente, il giorno dopo, in settimana al massimo. Tuttavia, come si diceva arrabbiati negli anni Sessanta "Il blog è mio e me lo gestisco io" (forse non era proprio così, forse c'entrava un utero, il concetto è lo stesso però). La norma me la sono autoimposta e ora me la autoscompongo.
Olè. Già fatto.
Ora che scrivo libera da qualsiasi vincolo posso spiegare cosa è mia intenzione fare nei prossimi giorni: voglio recuperare il tempo perduto, ossessione proustiana che si tradurrà nel recupero di eventi a cui ho partecipato negli scorsi mesi, e che per questioni legate all'afa, al lavoro, alla necessità di pettinarmi i capelli almeno una volta ogni tre giorni, ho accantonato fino ad ora.
Inizio con la presentazione di "Al zanet inspirtà", organizzata dalla Proloco al giardino delle duchesse. E' stata sicuramente l'evento più bello a cui ho assistito questa estate: location molto suggestiva, finalmente sfruttata per l'uso e il consumo da parte della cittadinanza (il buskersfestival è venuto dopo, la rassegna "Libri sotto gli alberi" è iniziata a giugno), Diego Marani un signore d'altri tempi. Avevo letto un paio di suoi romanzi ma non avevo mai avuto occasione di vederlo o conoscerlo al di là  della pagina stampata, e mi è piaciuto moltissimo: un uomo intelligente e garbato (non è poco).  A fargli da buona spalla il giornalista Stefano Lolli, capace di mantenere il giusto equilibrio tra partecipazione carismatica e piatta indifferenza. 
Del libro, la prima pubblicazione in ferrarese per Marani, non si è discusso molto e l'ho apprezzato. Non mi piace sapere troppo di qualcosa che poi andrò a leggere, preferisco la scoperta silenziosa all'anticipo o all'esegesi immancabilmente prolissa. Il poeta dialettale Roberto Pavani ha letto degli estratti, ma appartenenti ad un'appendice comica della pubblicazione, chiamata "ferrarese per stranieri": performance incredibile, testo e interpretazione riuscitissimi entrambi. 
La storia del Zanet non è stata quindi svelata, o almeno non troppo. Sul palco si è semplicemente preso spunto dal libro per confrontarsi con temi diversi: la precaria diffusione del dialetto ferrarese, la crescita e il deperimento - quasi organico - delle lingue, il ruolo dell'inglese, la sopravvivenza ambigua della lingua di origine nei ragazzi di seconda generazione. 
Marani vive da diversi anni a Bruxelles, dove lavora come interprete per la commissione europea. Ha fondamentalmente spiegato, ad un pubblico assolutamente variegato e "non addetto ai lavori",  i concetti chiave della linguistica contemporanea. Nonostante l'apparente gravità dell'argomento, il discorso è rimasto sempre molto leggero, divertente oltre che accessibile. Non sono mancati i momenti di gioco puro, come quando lo scrittore ha cantato"Romagna meine" (traduzione di "Romagna mia") in europanto, un buffo mix di idiomi diversi, inventato da lui stesso per far divertire i colleghi.

domenica 7 agosto 2011

DON'T BE VAGUE, DRINK COCKTAILS


Avrei voluto raccontare di questa serata il giorno dopo o quasi, invece mi sono lasciata passare davanti più di una settimana di tempo. Mea culpa: negli ultimi mesi ho trascurato il blog, e se tutto andrà come prevedo vada, almeno fino a settembre continuerò semplicemente a sopravvivere a me stessa, ai troppi impegni di lavoro, al caldo bianco di afa che mi riempie il soggiorno.  Provo comunque - oggi che è domenica - a ritagliare qualche ora da dedicare ai vecchi appuntamenti non commentati, iniziando appunto dalla serata gestita in collaborazione tra Camelot Cafè e Zuni per l'ultimo venerdì di luglio. Sono capitata all'evento per caso: ero già al parco urbano per la festa di mezza estate organizzata per i bambini dei centri estivi, e sono semplicemente trapassata dal laboratorio artistico all'aperitivo cotto dal sole, dalle forbici con la punta arrotondata allo spritz. Mi sono divertita e sono stata bene, ma mi permetto - al solito - un paio di appunti.
Cardine della festa, a giudicare dal nome scelto per la promozione, avrebbero dovuti essere i cocktail. Io non li ho assaggiati perché avevo un aperitivo già offerto e per educazione non mi ci potevo proprio sottrarre (non sia mai!), ma mi domando: può alle soglie dell'imminente fine del mondo maya essere una serata organizzata unicamente attorno a dei cocktail? Io credevo fossero abbastanza comuni, una di quelle cose che si trovano in ... tutti i bar del pianeta, tipo. Vabbè, probabilmente sono la solita schizzinosa. Se qualcuno volesse scrivermi in merito sarei contenta, magari scopro che vi erano state mescolate sostanze talmente rare e preziose, shakerate con tale pazienza certosina e amore, da produrre bevande assolutamente imperdibili. Chissà. 
Secondo appunto: buono il djset, equilibrata la scelta dei pezzi, niente di troppo venduto, niente di troppo elitario. Peccato che gli ospiti accorsi specificatamente per l'evento rimanessero ostinatamente fermi, immobili come la fede cattolica. Chiarisco un po'meglio la situazione. I presenti si dividevano in fazioni ben distinte: da una parte un gruppo di cialtroni sudati - gli educatori rimasti al parco dopo la festa con i bambini - , con residui di tempera nei capelli e le occhiaie, dall'altra parte la beautifulpeople invitata da Zuni, con i vestitini freschi e i capelli acconciati, impassibile. Io facevo parte del primo gruppo, il quale non ha sicuramente proposto uno spettacolo edificante usando una mezza anguria a modi cappello e rincorrendosi con le ciabatte rotte sulla ghiaia, ma ha almeno festeggiato a dovere, ballando tanto e ridendo altrettanto. Bisogna riconoscere che un paio di tentativi danzerecci da parte del gruppo beautifulpeople si sono effettivamente verificati, ma solo nei momenti di occupazione massiccia del sottopalco. Appena la marea degli educatori si ritirava - per un sorso di acqua, uno scherzo, una sigaretta - ecco che timidamente ritornavano composti e seduti. 
Mi domando che tipo di serata sarebbe stata senza la coincidenza che ha quasi sovrapposto una festa all'altra. Credo sinceramente abbastanza triste.

domenica 24 luglio 2011

LAST KILLERS AL RELOAD



Dopo settimane di serate solitarie e telefilm (lavorare d'estate stanca, è un dato di fatto) finalmente ieri sera sono uscita dal guscio del mio divano e mi sono ributtata a calci fuori casa. Sono arrivata al Reload tardi, giusto in tempo per sentire le ultime canzoni dei Last Killers e fare quattro chiacchiere prima del temporale, ma qualcosina al volo sul festival credo di poterla scrivere. La location boschiva vale da sola la serata, racchiusa nell'intimità dalle mura ed esclusa dal tempo triste della città, con i tavoli da sagra immersi nel verde frondoso del parco e le installazioni oniriche tutto attorno. Piace assai. Buono anche il servizio "bibbite": prezzi adeguati e birra finalmente di qualità (ma senza troppi tiramenti). Il concerto poi, almeno per i pezzi che ho potuto ascoltare, mi è sembrato valido: presenza scenica carismatica, repertorio garage rock apparentemente svagato ma tecnicamente complesso e curatissimo, ritornelli abbastanza orecchiabili da smuovere immediatamente gli animi, i corpi, le gambe, le braccia.
Peccato che non si smuovesse nessuno. Io arrivavo da due ore di dibattito sui costi della politica, con tanto di onorevoli e consiglieri regionali straripanti, e sinceramente non mi sentivo abbastanza in forza per affrontare il sottopalco. Non voglio autogiustificarmi, ma quando gli anni universitari lasciano il posto al precariato cronico, a cinque contratti a progetto incrociati come un tetris per non riuscire comunque ad arrivare a fine mese, un po'di spossatezza anche ci sta. Mi chiedo però dove fossero ieri tutte le me stesse più giovani, le studentesse che ora hanno l'eta che avevo io quando non perdevo una canzone, un'occasione, quando quasi correvo per tuffarmi in mezzo alla gente e abbandonavo i sandali nell'erba per saltare più alto. L'unica a ballare (grandiosa!) era la ragazza della bancarella di orecchini a forma di liquirizia. Possibile che il Reload sia frequentato solo da disoccupati stanchi e precari ancora più stanchi? O - in alternativa - possibile che gli studenti in forma non abbiano più voglia di ballare? Seduti davanti a me stavano una giovinetta-allstar abbarbicata a un giovanotto-birkenstock, che forse - ma solo forse- facevano quarant'anni in due. Lei a un certo punto si è alzata in piedi e ha provato a trascinare lui per il braccio, verso la musica veramente irresistibile. Lui ha opposto resistenza, l'ha ritirata a sé con fermezza e ha sancito l'immobilità di entrambi mettendole la lingua in bocca. Bello l'amore passionale, ci mancherebbe, ma provare un minimo slancio verso qualche altra cosa non sarebbe poi così male.

domenica 3 luglio 2011

EMERGENCY DAYS: LA PRIMAVERA ARABA + MALAPIZZICA


Ci sono dei momenti in cui la libertà imprevedibile degli anni universitari mi ritorna viva in mente, e il ricordo si cristallizza in una grande bolla di rimpianto, che mi schiaccia al suolo più di quanto non mi appesantisca quotidianamente l'affastellarsi degli impegni e il circo noioso delle responsabilità. Le giornate in cui si tengono gli Emergency Days sono il momento perfetto per rispolverare tutta l'autocommiserazione di cui dispongo (lo ammetto: è tanta) e farsi venire qualche buon nervoso: non avrei voluto perdere un dibattito, uno spettacolo, un concerto. E invece ho ovviamente mancato quasi tutto. Chi ha passato quelle serate davanti alla tv o in gelateria si senta pure male: avrebbe dovuto essere in piazza.
Dopo questa premessa necessaria, provo a raccontare gli unici due appuntamenti a cui sono riuscita a partecipare.
LA PRIMAVERA ARABA: L'incontro di giovedì pomeriggio avrebbe dovuto essere un approfondimento sugli sconvolgimenti vissuti nell'ultimo anno dal cosiddetto "mondo arabo" (definizione intrinsecamente problematica, generalista e superficiale,  la cui diffusione è già sintomatica della miopia dello sguardo "occidentale" sul fenomeno, com'è stato fatto notare da Edda Pando). La discussione di fatto ha sbandato più e più volte rispetto l'asse centrale attorno al quale avrebbe dovuto convergere, ma nessuna delle sue deviazioni mi è sembrata inutile. Si è passati attraverso la scommessa del migrante che affronta il mare con il racconto del reporter Giulio Piscitelli; ci si è soffermati sulle incongruenze della legislazione italiana in materia di immigrazione con Edda Pando (che ha richiamato i presenti a fare politica nel senso originario del termine: fare polis, costruire stato e cittadinanza); Cecilia Strada come al solito ha spostato l'attenzione verso l'Afghanistan, e come al solito è stato impossibile non prestare ascolto alla semplicità disarmante delle sue parole (a chi le chiedeva cosa può fare il singolo per aiutare ha risposto molto concretamente che basterebbe, ognuno nel proprio piccolo, "rompere i coglioni": a chi posteggia in doppia fila, a chi non rispetta gli stranieri, a chi impedisce ai senzatetto di salire sull'autobus, a tutti i piccoli soprusi quotidiani di cui si è testimoni). L'intervento di Karim Bugaighis è stato l'unico ad affrontare di petto la "primavera araba", ed è stato a mio avviso completamente destabilizzante. Karim, che abita a Ferrara da molti anni, ha ricomposto come se fossero i pezzi disordinati di un puzzle i significati diversi del suo essere libico in Italia: memorie di infanzia, la violenza di un regime a cui ha assistito inconsapevole, l'indifferenza forzata con cui ha accolto la propria condanna a morte - colpevole di essere partito per l'Europa e di non essere più tornato - . E ancora lo scandalo e infine l'accettazione dei rapporti a dir poco cordiali intrattenuti dal nostro governo e Gheddafi, il silenzio scaramantico condiviso dai connazionali immigrati quando le rivolte iniziavano a diffondersi, la preoccupazione ma anche la giustificazione dell'intervento NATO. Ha parlato con calma, ma la voce a tratti sembrava strozzarglisi in gola. Ha concluso ripetendo al pubblico "Spero che ce la caveremo", e quasi rivolto a sé stesso, per convincere le proprie paure più che per risolvere quelle degli altri: "Sono sicuro che ce la caveremo".
MALAPIZZICA IN CONCERTO: Ad essere sincera, dopo aver ripercorso le tappe salienti dell'incontro sulla primavera araba faccio fatica a scrollarmi tutto di dosso, e a scrivere qualcosa sulla serata di venerdì. Tuttavia, per recensire una festa strutturata in iniziative tanto diverse, devo cercare di riappropriarmi di sensazioni altrettanto diverse. Faccio un bel respiro e ci provo.
Quando assisto ad un concerto di pizzica mi sento quasi sempre dilaniare: da una parte mi strattona la noia, il disprezzo intellettuale per il pubblico che si intrattiene in canti e danze diventati troppo di moda (scriveva qualche anno fa un mio amico "bisognerebbe proibire di ballare la pizzica a chi ha meno di sessant'anni e/o non presenta una congrua dose di calli da zappa sui palmi delle mani"); dall'altra parte mi tira per le braccia e per le gambe la musica  incalzante, il desiderio di buttarmi in mezzo alla folla. Sotto il palco dei Malapizzica ho cercato il compromesso: un balletto e basta, abbastanza per sfogarmi ma anche per sentirmi scoordinata e fuori luogo. Il resto del tempo l'ho passato ad ascoltare le ballate amorose, strazianti, a crogiolarmi nell'accordo delle voci e degli strumenti, ad osservare a mezzo metro da me il calderone disarmonico di mani e ginocchia, saltelli sbilenchi, madri sudate e improvvisati ballerini, bambini furibondi e ragazze con lo scialle. La pizzica, con i suoi suonatori "ipermeridionali" - anche quando vengono da Cinisello Balsamo - e le gonne alzate sopra le cavigli, conserva sempre un certo fascino (malgrado tutte le mie reticenze).

giovedì 30 giugno 2011

NINA PALMIERI PRESENTA "RAGAZZE CHE AMANO RAGAZZE"


In linea con queste giornate tese di esami e maturità, ecco la pagella della presentazione organizzata da Circomassimo in collaborazione con Melbook:
GEOGRAFIA: 8. Ho apprezzato molto la decisione di organizzare la presentazione del libro sotto i portici della libreria, invece di usare la nuova sala ristrutturata al terzo piano. Ci saranno state più zanzare e umidità, ma è importante che argomenti ancora controversi come l'omosessualità possano affacciarsi direttamente sulla piazza in fermento, stimolare la curiosità dei passanti.
STORIA: 6, 5. Le storie raccontate da Nina Palmieri appartengono alle esperienze vissute attraverso la strutturazione del programma televisivo "Le storie di Nina" (appunto) dedicato all'esplorazione dell'universo lesbico. La tematica è sicuramente interessante, per questo merita una sufficienza abbondante, ma durante la serata non ho trovato grandi stimoli di riflessione. Sia l'autrice che la moderatrice hanno dimostrato disponibilità e spigliatezza, ma i punti toccati dalla discussione - fatta eccezione per l'approfondimento sul modello genitoriale trasmesso dalla famiglia omosessuale - sono stati abbastanza banali.
ITALIANO: 5. Le letture non mi hanno convinto per nulla. Di solito alle presentazioni si propongono i brani più intensi o accattivanti, ma spero vivamente che ieri sera la scelta degli estratti abbia giocato al ribasso (magari per sorprendere il temerario che si decide all'acquisto). Possibile che da una realtà così densa e complessa il meglio che si riesca a cavare è una vaga riflessione identitaria sull'opportunità di farsi crescere i peli sulle gambe?
TECNICA: 5. Gli amplificatori dei microfoni erano inutilmente posizionati vicini alle prime file del pubblico, chi era seduto un po'indietro non riusciva a capire granché.
CHIMICA: 7,5. Come conferma la statica dei fluidi: l'aperitivo offerto suscita sempre reazioni positive.
Dalla media dei voti risulta un 6 +. Serata non particolarmente entusiasmante, ma tutto sommato soddisfacente.

martedì 28 giugno 2011

LA SANCHICCIATA



La giraffa proclama ufficialmente alla comunità tutta che, dopo la serata di ieri al centro sociale La Resistenza, è proibito in quel di Ferrara qualsiasi commento svogliato, qualsiasi giustificazione alla propria pigrizia. Specificatamente le espressioni “non c'è mai niente da fare” e “qua non si riesce mai a fare niente” sono tassativamente bandite dal frasario comune. I ragazzi che seguono il centro infatti hanno saputo, in poco più di tre mesi, ripristinare alla cittadinanza uno spazio già avviato alla decadenza e sfruttarne al meglio le potenzialità, aprendosi onestamente alle idee, ai propositi, ai desideri delle persone. Rispetto ad altri tanti posti pretestuosamente “sociali”, la Resistenza riesce – unica a mio avviso – a favorire una relazione di reciprocità tra avventori e gestori, ad essere casa e giardino di tutti, a rendersi disponibile e permeabile alle collaborazioni e alle contaminazioni. I luoghi di ritrovo in città, tanto i locali privati quanto gli spazi associativi, vengono quasi sempre gestiti alla stregua di club esclusivi. Per quanti sforzi retorici facciano in direzione della condivisione (volantini accattivanti, feste aperte e inaugurazioni), frequentarli è come partecipare a una gara di resistenza. Sarò io il primo a stancarmi di essere costantemente accantonato, oggetto di grandi grandissimi sorrisi ma irrimediabilmente estraneo? O sarà invece il “circolino” a cedere infine alla mia caparbietà, costretto a posare su di me uno sguardo un pochino meno indifferente rispetto a quello che solitamente si riserva a un piccione che sgambetta per strada?
Io mi sono sempre arresa, non ho mai vinto nessuna di queste sfide. Non voglio con questo intendere che siano impossibili: conosco delle persone che in più di una occasione sono riuscite a scalzare piano piano tutte le resistenze degli adepti e ad integrarsi a loro, armati di pazienza sconfinata e un karma positivo granitico. Io appunto non ci sono mai riuscita, ma sarebbe più corretto ammettere che non ho mai nemmeno voluto riuscirci. La grammatica settaria del gruppo-chiuso-autoproclamatosi-apertissimo mi ha sempre avvilito molto. Mi ero quasi rassegnata alla sua inevitabilità, ma sono felicissima di tornare sui miei passi: Ferrara ha finalmente un centro sociale non antisociale, e la Sanchicciata di ieri ne è la prova. A organizzare le attività della Resistenza si alternano amici e coinquilini, associazioni di genitori e gruppi di acquisto solidale: ognuno porta con sé ciò che ha di meglio e trova finalmente uno spazio per metterlo in comune. Nella fattispecie ieri sera si è trattato di salsicce e verdure grigliate, pane curdo fatto in casa (ho provato a carpirne i segreti ma non credo saprò riprodurlo: era eccezionale!), pomodori ripieni e vino rosso. Con tre euro e mezzo si mangiava e si beveva in compagnia, prendendosi il fresco della sera e magari improvvisandosi deejay (la scelta delle canzoni era infatti aperta all’iniziativa dei presenti, una sorta di juboxe postmoderno). Una serata talmente facile, un’idea talmente semplice, da non essere ancora mai stata proposta: cibo buono e un prezzo onesto, musica e qualche zanzara che ormai siamo a fine giugno e ci sta.

sabato 25 giugno 2011

FESTA DELLA LINEA BN


Mi piace sempre l'atmosfera docile del centro sociale la Resistenza. Sembra un ossimoro (resistenza docile?), e ora provo a spiegare meglio quello che intendo: aria familiare, senza pretese nel senso migliore del termine, per cui ci si può permettere di non doversi difendere dagli sguardi o dalle opinioni altrui, e (finalmente!) rilassarsi. Anche la festa della Linea BN, organizzata ieri sera, ha partecipato di quest'aura conviviale e protettiva. Sono stati proiettati all'aperto i booktrailer delle prossime pubblicazioni della casa editrice ("Cose bulgare" e "Io guardo Sofia") ed è stata presentata la raccolta “Piccoli scatti e scritti”, frutto di un concorso di fotografia e narrazione promosso per tutto il 2010 tramite facebook. Gli autori vincitori (tantissimi, uno per ogni settimana dell'anno) hanno brevemente introdotto il loro lavoro, che veniva poi letto ad alta voce con sottofondo musicale ambiguo (non saprei come altro definire una chitarra elettrica che distorce a caso e fischia ogni tanto). A seguire buffet freddo di derivazione bulgara (per accordarsi agli interessi editoriali) e musica piacevolmente datata, le canzoni fresche di quando eravamo tutti più belli e stupidi.
Se ri-penso alla serata devo ammettere che oggettivamente non è stata granché: una lettura di taglio decisamente amatoriale e una cena costosetta (5 euro per un “menù completo” che tanto completo non era – due polpette, una fetta di torta salata, una manciata di riso freddo - ... e che addirittura sull'invito all'evento figurava come offerto!). Se ri-sento la serata sono contenta. Marco Belli è stato un padrone di casa informale e sorridente, l'aura di cui sopra si è insinuata tra i tavoli e le conversazioni, facendo passare in secondo piano le piccole storture. I prezzi scandalosamente onesti del bar poi pacificano sempre l'animo.

mercoledì 22 giugno 2011

IO RICHIEDO - IN OCCASIONE DELLA GIORNATA MONDIALE DEL RIFUGIATO


Sabato 19 giugno in tutto il mondo si è festeggiata la giornata del rifugiato, e a Ferrara per l'occasione è stata organizzata una serata al parco urbano, ospitata nello spazio ancora da scoprire del Camelot Cafè (cfr: Inaugurazione Camelot Cafè).
L'iniziativa si è aperta con una lettura a più voci, dove si incrociavano memorie personali, desideri, sensazioni, pronunce italiane e straniere. I verbali rilasciati dai richiedenti asilo, riduzioni vorticose e dure che nel giro di una frase condensano anni di violenze e peregrinazioni, si mescolavano ai brani più intimi, prosa lirica se non puntualmente poesia, in cui confluivano nostalgie e brandelli di quotidiano. La secchezza tagliente del resoconto cozzava contro il cuore spalancato della vita vissuta, e nessuno tra il pubblico osava fiatare. Lo zoppicare dei lettori più emozionati tra le righe, l'incespicare a tratti delle parole, amplificava il senso dei testi: attribuiva concretezza al percorso lungo e in divenire che ha portato tante persone in Italia, ad imparare una lingua che ora gli appartiene, e che gli permette finalmente di potersi raccontare. L'aria attorno alla gente era elettrica, tesa nell'ascolto, e finalmente vuota di retorica. Ho apprezzato moltissimo la decisione di commentare le esperienze unicamente leggendo, a intervallare i brani, le norme che regolano il diritto di asilo.
La serata è proseguita in maniera abbastanza tradizionale. Conclusa la lettura è stato offerto ai partecipanti un'abbondante aperitivo, semplice ma sempre efficace (pasta fredda, salumi...), e si è stemperata piano la sensazione amara diffusa dai racconti, tra un boccone di pane e salame e uno sguardo al tramonto violaceo. A seguire il concerto di Giorgio Canali (che già aveva accompagnato le letture): un grande classico delle iniziative ferraresi, che ad alcuni annoia e ad altri attira, ad altri un misto tra le due. Io lo ascolto sempre volentieri, ha chiuso piacevolmente un'iniziativa che ho trovato molto onesta.

domenica 19 giugno 2011

SAGRA DELLA PIZZA (A CASSANA) E SAGRA DEL TORO (A MASI TORELLO)


Ieri sera Ferrara era impegnatissima: concerti, videoproeizioni, inaugurazioni, un grande calderone di proposte. Attirata dall'aria salubre della sera e dal venticello che portava a spasso odore di prato (incredibile che ancora si possa respirare senza dotarsi di branchie) ho deciso di scartare ogni velleità culturale, giovanilistica e modaiola, per perseguire l'ideale bucolico.
Via! Nei campi! 
Dopo un rapido controllo delle serate organizzate nei dintorni, assieme ad alcuni amici si è convenuto di puntare alla sagra della pizza di Cassana (lo so che fa ridere, ma per una abituata a girare in bicicletta entro le mura Via Modena vale già come campagna). Sembrava una buona idea: è vicina e, soprattutto, qualche mese fa ero stata invelata perché in dieci anni di vita presso l'odierna corte estense non ci ero mai andata a mangiare. Credevo che la qualità dell'evento fosse proporzionale all'intensità della "sgridata": m'aspettavo di poter mangiare tantissimo, magari pagando una quota unica all'entrata, o di poter assaggiare diverse tipologie di impasto e condimenti inusuali. Mi sembrava logico che in una sagra della pizza avrei trovato qualcosa di più entusiasmante o caratteristico che un semplice spazio all'aperto per cenare, e dello stesso avviso erano i miei amici. Tutti delusi allo stesso modo: la festa si riduceva ad una specie di pizzeria per ovvie ragioni sgangherata, tra le zanzare e l'erba secca, niente di più. Siamo tornati mesti in automobile, diretti questa volta verso la sagra del toro, a Masi Torello. 
Io non so se storicamente esistano motivi che legano il paese all'allevamento taurino (ho cercato in internet qualche informazione ma non ho trovato nulla), ma a prescindere dalla coerenza con la tradizione la carne di toro non viene servita tanto spesso, e questa possibilità può giustificare da sola la visita. Scovare altre buone ragioni è difficile: nessun allestimento, nessuna orchestrina di liscio, nessuna esposizione di prodotti tipici, nessuna iniziativa, nessuna condivisione in definitiva. Non che io cercassi qualcosa di particolarmente innovativo: obiettivo della serata era appunto quello di trascorrere qualche ora in una classica festa paesana, con i vecchi che ballano la "cesarina", i sedicenni sul Tagadà, e le signore in grembiule a cucinare dietro il paravento. Ho trovato invece il solito tendone rabberciato, le pietanze abbastanza buone ma costose (7 euro un piatto di cappellacci; 2e50 una vaschettina minuscola di patatine... e se il toro alla griglia era gustoso, il purè di patate era verde), e una grande desolazione (per pietà nei confronti del clown non commento lo spettacolo di animazione per bambini). Spero di non incorrere nell'ira dei tanti che si spendono nell'organizzare queste iniziative, ma a parer mio sarebbe un bene per tutti riflettere un po'di più sul significato e il valore del proliferare incongruo di questi improvvisati "eventi tipici".

giovedì 16 giugno 2011

JOHN STRADA A "LEI NON SA CHI SONO IO"


Atmosfera surreale ma piacevole, all'Oratorio dell'Annunziata, in occasione del primo incontro della rassegna "Lei non sa chi sono io", organizzata dalla Pro Loco.
Mi ci sono recata incuriosita soprattutto dalla location, di cui mi avevano parlato con grande entusiasmo. Non è stato possibile accedere alle sale affrescate dei piani superiori, e per soddisfare la curiosità occorrerà ritornare. L'incontro infatti si è svolto al piano terra, in uno stanzone spoglio e fresco, pervaso di quell'odore caratteristico che solitamente si associa alle vecchie canoniche, in cui si mescolano pulizia e tende tirate, un vago sentore di muffa. Una grande reminescenza olfattiva dunque, ma anche visiva, tattile: la sala appariva al primo colpo d'occhio trascurata e bruttina, ma già al secondo sguardo si apriva a suscitare indefinite memorie infantili, con le sue sedie scure e dure, le colonne imbottite per attutire gli urti dei bambini, la nicchia per le recite teatrali celata da un umile sipario blu ("neanche per un prete per chiacchierar"). Il folto pubblico intervenuto all'evento, invece di dissipare l'atmosfera sospesa nel tempo, contribuiva ulteriormente all'effetto straniante. Osservando tra le file delle persone sedute non riuscivo a identificare il target della serata: quindicenni ridanciani, coppie ben vestite, anziani orientali in sandali e braghe di tela, famiglie con prole al seguito, trentenni abbronzati... e le suore (vestite da suore). A vederli così, tutti vicini, facevano tenerezza: un grande affresco collettivo e anacronistico, praticamente la locandina di "Amarcord".
E mi rendo conto di non aver ancora speso due righe in merito all'iniziativa in sé, ma adesso ci arrivo.
Cosa riusciva a tenere assieme facce tanto diverse?
Il cantante e insegnate centese John Strada, il quale per l'occasione si è trasformato in showman, imbastendo un variegato repertorio di chiacchiere, canzoni e riflessioni. L'idea di incrociare esecuzione cantautoriale e racconto informale mi è sembrata convincente. Soprattutto in relazione alla produzione locale, usare la musica come veicolo dell'esperienza e viceversa credo possa essere una buona soluzione per valorizzare entrambe.
Le storie ascoltate sono state a tratti buffe, a tratti pensose, sempre molto spontanee (resoconti giovanili, i viaggi all'estero, l'immaginario americano, l'ispirazione tradotta in creazione...). Le canzoni vi si sono inserite con naturalezza. Ho apprezzato maggiormente le cover in inglese ("Everybody got a Hungry Heart" di Springsteen e "Long Black Veil" di Cash, con tanto di traduzione quasi in simultanea) e i brani più spensierati ("Signora Rina", dedicata alla vicina impicciona).  I pezzi a vocazione "sociale" non mi sono piaciuti, li ho trovati sbrigativi e stereotipati ("Mohamed" ripercorre le vicende di uno spacciatore marocchino, ucciso dai rivali tunisini, "Zaira" invece tratta di una prostituta africana ammazzata da un cliente) . Appartengono all'album acustico "Dalla periferia dell'anima", che lo stesso autore definisce ridendo "un disco bruttissimo, muoiono tutti, è veramente triste". A prescindere dalle considerazioni di gusto personale la sua voce rimane fantastica. Vale sicuramente la pena andarla ad ascoltare.

domenica 12 giugno 2011

ENRICO BRIZZI PRESENTA "GLI PSICOATLETI"



Come risolvere un sabato pomeriggio uggioso nella piatta piattissima pianura padana? Andando a sedersi comodi tra gli scaffali di Melbook, ad ascoltare un bravo narratore ripercorrere viaggi e  paesaggi, e svicolare così per un oretta almeno dal presente biancastro del cielo ferrarese per immaginarsi camminare altrove. Enrico Brizzi è stato invitato ieri in libreria a presentare il suo ultimo romanzo, "Gli psicoatleti", dichiaratamente ispirato a una lunghissima migrazione intrapresa in prima persona, volta ad attraversare la penisola italiana a piedi (per maggiori informazioni, si veda il progetto "Italica 150": http://www.italica150.org/italica/Home.html). Del libro si è in effetti discusso, con cura e interesse, ma l'incontro è stato avvincente soprattutto perché farcito e condito di tante esperienze, aneddoti, sincerità grandi e piccole. Lo scrittore più che ripercorrere il romanzo ha spiegato al pubblico  il significato che intimamente attribuisce al viaggio e al viandante, le motivazione ideali che lo hanno portato a spasso per la penisola per più di tre mesi, munito di zainetto e buona volontà, ma anche le difficoltà pratiche, i ripensamenti. Non avevo mai visto Enrico Brizzi, e nonostante in fase tardoadolescenziale io abbia sorbito con grande ammirazione sia "Bastogne" che "Tre ragazzi immaginari" ("Jack Frusciante" non mi convinse mai, nemmeno in quell'epoca di ristrettezze intellettuali e Dawson's Creek), di lui personalmente non avevo mai saputo nulla. Ammetto ora di averlo trovato incredibilmente onesto, per essere uno scrittore, e umile, per essere una persona di successo. Mi ha convinto completamente quando ha parlato del viaggio compiuto come di un "impresa". Ero già pronta a sorbirmi l'excursus didattico sul senso epico e mitologico del termine, il richiamo ai grandi navigatori dell'antichità classica etc. etc. etc. Invece ha specificato: "impresa in senso scoutistico". Non credo sia facile riuscire a liberarsi del fardello dei luoghi comuni (la tentazione della retorica facile) con tanta disinvolta agilità. Percorrere sulle proprie gambe i kilometri che separano la Valle Aurina (provincia di Bolzano) da Capo Passero (Siracusa) e non tirarsela per nulla è già una grande cosa, ma paragonare il progetto allo svago dei bambini più sfigati (sono stata scout e sono autorizzata all'autocritica) è addirittura sublime. In merito alla difficoltà di impegnarsi quotidianamente, avrebbe potuto accentrare l'attenzione sullo sforzo fisico o sulle inevitabili intemperie (non credo avrebbe dovuto nemmeno esagerare la realtà per essere coinvolgente), invece ha raccontato la desolazione di svegliarsi e aver dormito male, e magari trovare nell'ostello delle fette biscottate scadute e il succo di frutta che sa di qualcos'altro che non è succo di frutta. Una semplicità (e di conseguenza un'intelligenza) disarmante.
Le letture mi hanno entusiasmato meno, forse per la scelta dei brani (molto dialogati, un po'difficili da seguire), forse perché i romanzi di Enrico Brizzi sono già entrati nella mia vita in passato e per mille ragioni non ci entreranno più (anche se in effetti la curiosità di leggerlo nuovamente mi è venuta).
Per quanto riguarda invece la gestione dell'evento: innanzitutto sono stata felice di trovare finalmente una libreria capace di ospitare come si deve una presentazione (senza infastidire gli avventori, senza schiacciare il pubblico tra gli scaffali, senza l'imbarazzo dei microfoni che non funzionano e tutto il resto a cui sono - siamo - abituati). La nuova sala inaugurata al terzo piano si è rivelata da questo punto di vista un luogo assolutamente confortevole e attrezzato. Che sollievo. Ho inoltre apprezzato molto le capacità del moderatore, il cui ruolo è a mio avviso cruciale (cfr. Balasso presenta il "Il figlio rubato"). Il ragazzo che ha introdotto e intervistato lo scrittore è stato perfetto: introduzione non troppo sommaria né esageratamente prolissa, intervento minimo ma attento rispetto gli argomenti e i tempi dell'ospite (domande semplici e sensate, puntuali). Se non ho capito male l'incontro è stato proposta e gestito dalla redazione del Tascapane, a cui faccio  i miei complimenti.

sabato 11 giugno 2011

4 GDA: FAST FORWARD




Pensieri alla rinfusa, dopo le serate di mercoledì e venerdì al sottomura di via Baluardi. 
Il tempo ha incredibilmente retto, e nonostante l'umidiccio per terra la gente ha bevuto e gli architetti hanno grigliato. Bancali da ortofrutta sparpagliati nel prato come panchine informali, chiosco immancabile e odore di carne nell'aria. Tanta tanta gente ad entrambe le serate. Mercoledì concerto funky (Dre love & the white niggas), ero bastantemente brilla per cui non mi dilungo in critiche o specifiche. A me veniva voglia di ballare, credo basti. Ieri invece alternanza sul palco di vari dj. Ho mantenuto un profilo alcolico più defilato, e sono tornata a casa senza barcollare e con un sentimento di invincibilità che raramente mi capita di provare. Ho passato praticamente quattro ore seduta nella lingua di terra interna al baluardo, a chiacchierare e guardare lentamente il prato popolarsi e agitarsi. Le prime tre ore di dj set mi sono sembrate incredibilmente monotone e non riuscivo a capacitarmi di come la folla potesse esprimere tanto giubilo (braccia in alto sopra le teste ondeggianti, movimenti disarticolati e partecipi), ma probabilmente sono io che ormai non capisco più le esigenze dei gggiovani.. Un paio di volte ho attraversato il marasma umano del sottopalco, uno sproposito di sudore e ormoni. 
Ogni tanto va bene anche così, senza troppi fronzoli.

martedì 7 giugno 2011

STANZE DI TEATRO IN CARCERE



Ieri ho assistito a qualche appuntamento della rassegna itinerante “Stanze di teatro in carcere”, ospitata a Ferrara nelle sale del comunale. La manifestazione iniziava alle tre e mezza di pomeriggio, con proiezioni, dialoghi e anteprime, e si concludeva a sera inoltrata con lo spettacolo principale “Woyzeck”, organizzato dal teatro Nucleo assieme ai detenuti di Via Arginone. Avrei dovuto essere in pensione per permettermi a inizio settimana una maratona simile, ma ovviamente non lo sono e probabilmente non lo sarò mai, e alcuni incontri - che pure mi interessavano molto - sono andati forzatamente persi (e qui sento l'obbligo morale di aprire una parentesi sulla scelta -veramente troppo frequente- di organizzare eventi utilissimi alla società tutta quando la società tutta è banalmente al lavoro). Fortuna vuole però che io sia perlomeno endemicamente precaria, le mie giornate un gioco a incastro. Ho potuto così intercettare qualche ora libera a metà pomeriggio, ed ecco in pillole quello che sono riuscita a seguire:
LECTIO DI GIULIANO SCABIA: Aerea e vaghissima, interessante ma senza amplificazione, nell'aria umida e ferma del ridotto stavo per crollare addormentata. Scabia prendeva spunto da impressioni personali o parole di uso collettivo per lasciarsi trasportare dalle suggestioni, trovare spunti nuovi per guardare non solo alla realtà carceraria, ma alle varie stratificazioni di soglie che dividono le persone in gruppi, e scindono lo stesso individuo rispetto il proprio essere esterno, proteso, e il proprio essere interno.
ATTRAVERSO CALIGOLA: I detenuti del carcere di Castelfranco Emilia hanno rappresentato, sul palco del comunale, alcuni esercizi che svolgono durante il laboratorio organizzato dal Teatro dei venti, e che saranno strutturati in uno spettacolo che andrà in scena prossimamente a Modena (se non ricordo male). Nonostante la dimensione in fieri del lavoro proposto, orientato sul Caligola di Camus, la rappresentazione è stata molto coinvolgente: una riflessione sulla volontà del potere, espressa soprattutto fisicamente in scene corali di forte impatto emotivo, ma anche attraverso la recitazione di brani ad alto contenuto simbolico. Buona la regia, che ha saputo inserire gli esercizi in una cornice organica, e ha scelto una colonna sonora capace da sola di reggere il palco, alimentando la tensione prodotta dai corpi degli attori. Adesso improvviso una lectio anch'io, qualche riflessione sull'onda lunga dell'emotività: condividere lo spazio teatrale con delle persone detenute è sempre straniante, la soglia che divide la realtà carceraria dalla realtà civile si assottiglia e diventa quasi solo una questione di luce: la distinzione tra chi è prigioniero (e mi rendo conto di usare una parola desueta, ma proprio dalla mancata abitudine credo possa scaturire una nuova comprensione), esposto sotto i riflettori, e chi invece è libero, nascosto nell'oscurità. Poter osservare il volto di chi viene comunemente considerato Altro, avere la percezione fisica della labilità del confine che separa gli spazi (un palcoscenico, una formalità), è un'occasione importante.
DIALOGO TEATRALE TRA PATRIZIO BIANCHI E MARCO DALLARI:  In verità ero tornata al ridotto per sapere qualcosa di più sull'esperienza padovana di Tam Teatro, la cui presentazione era in calendario ma di cui non si è più saputo niente. Qualche imprevisto deve aver modificato il programma senza che si riuscisse ad aggiornare il depliant cartaceo, e mio malgrado mi sono ritrovata ad assistere al dialogo tra il fu magico-rettore e il pedagogista. Di teatrale c'era poco o nulla: i due relatori invece di starsene compiti e seduti parlavano stando in piedi, Bianchi evidentemente stanchissimo, appoggiato al leggio con i gomiti. Un moderatore/intervistatore proponeva delle domande, ed entrambi con agio rispondevano. Niente di nuovo sotto il sole: l'importanza dell'espressione creativa in contesti difficili, l'inaffidabilità del Pil rispetto l'effettivo benessere sociale del paese, la mancanza in tante persone di risorse simboliche per affrontare la realtà. Qualche spunto interessante tuttavia è stato formulato, e mi è piaciuta la prospettiva e l'animo con cui Dallari ha parlato delle proprie esperienze, soprattutto in relazione alla pratica concreta dell'educazione in carcere.

giovedì 2 giugno 2011

DIBATTITO CARDIACO: UNA CITTA' SENZA IMMIGRAZIONE


Non ho ancora capito cosa penso del dibattito organizzato martedì sera.
Sicuramente mi è piaciuta la scelta di invitare personalità e professionalità differenti (maestri, immigrati di prima e seconda generazione, volontari, rappresentanti comunali, etc...), e di consentire a ciascuno di loro un limite massimo di cinque minuti per esporre le proprie idee (si chiama: metodo Ignite). Troppo spesso le occasioni di confronto - a prescindere da quale sia il loro ambito di interesse - si trasformano in lunghissimi monologhi, regolati solo dal buon senso degli stessi relatori. La campanella-timer non ha  avuto ovviamente pretese censorie, se trillava nel bel mezzo di un ragionamento veniva comunque concesso un breve tempo supplementare, per chiudere il discorso, e mi è sembrata uno strumento gentile per mantenere in linea la discussione, evitandole deviazioni improbabili o inutili lungaggini retoriche. La mia impressione però è che l'ansia di comunicare velocemente abbia spinto spesso i partecipanti a somministrare unicamente i concetti ritenuti più importanti, trasformando il dibattito in una sagra delle buone intenzioni. Ho apprezzato quindi soprattutto chi è riuscito a testimoniare le proprie esperienze di vita e di lavoro, fornendo degli spunti di riflessione ancorati tenacemente alla realtà, rispetto chi invece ha tentato la strada dell' "insegnamento virtuoso". Condividere i ricordi e le impressioni di Lumiere Weleheu, di Catalina Golban e di Amarachi Ajuzie Udochukwu è stato molto coinvolgente. Ascoltare la migrazione dalla viva voce di chi tuttora vive le proprie giornate nello spazio di transizione che lega due culture, è sempre stimolante. Ho trovato inoltre particolarmente interessanti i racconti di Roberto Marchetti - presidente dell'associazione Nadya, che dal 2002 segue le problematiche legate al mondo delle cosiddette "badanti" - e di Marcello Brondi - che per anni si è occupato dell'inserimento scolastico dei bambini sinti. Il resto della serata mi è sembrato noiosetto: il topic dell'evento ("una città senza immigrazione") non è stato praticamente affrontato, se non lateralmente e sempre di sfuggita; le ulteriori riflessioni proposte sono state di carattere talmente vago da risultare superflue in un contesto interessato. A mio avviso vale la pena di ripetere alcuni concetti basilari (un esempio su tutti: "scoprire l'individuo oltre gli stereotipi") solo se si ha a disposizione una platea di persone a cui questi concetti basilari evidentemente mancano. Predisporre un confronto tra persone che già la pensano tutte allo stesso modo non ha molta utilità, a meno che appunto non si decida di abbandonare le acque placide del luogo comune per tentare di discutere più approfonditamente della complessità del reale. 
Le strade percorribili per rendere il dibattito efficace mi sembra possano essere soltanto due: o si organizzano incontri dove affrontare questioni specifiche, e si invitano a parlare persone altamente qualificate con un conseguente richiamo di pubblico consapevole; o si organizzano incontri a carattere generale destinati a "convertire" le masse. Ovviamente le masse, in quanto tali, disdegnano solitamente la serata impegnata. Propongo quindi di intitolare il prossimo dibattito dedicato all'immigrazione "eccezionale spettacolo di lap-dance, free entry e consumazione inclusa". Si avrebbe così a disposizione un pubblico veramente digiuno di buona coscienza interculturale, e allora sì che sarebbe utile rispolverare le vecchie massime.

martedì 31 maggio 2011

ANTEQUATTRO 2011



Malgrado la diffidenza che nutro nei confronti degli studenti di architettura, devo ammettere che a Ferrara essi sono gli unici a proporre delle feste intellettualmente valide, gli unici capaci di non appiattire le serate in un orgia di birra in bicchieri di plastica e chiacchiere da ubriachi. Non che ci sia qualcosa di male nell'intendere la festa in termini di fiesta-fiesta-fiesta!, ma in ambito universitario sarebbe lecito talvolta impegnarsi per qualcosa di più e di diverso, rispetto al piacevolissimo ma tardoadolescenziale party cafone. Grandi meriti quindi ai ragazzi di Bassoprofilo, a tal punto volenterosi da organizzare non solo la “4 Giorni delle Arti”, ma addirittura una serie di eventi preliminari, racchiusi sotto all'ombrello di “Antequattro”.
Primo appuntamento mondano ieri sera al Giardino delle Duchesse, interessante per almeno 3 motivi.
Motivo 1: L'allestimento interattivo dei lavori presentati al concorso “24 foto / 24 tempi” (ogni partecipante aveva a disposizione una macchina usa e getta per scattare 24 fotografie sul tema del tempo). Le sequenze di foto erano allacciate a formare tanti nastri circolari, montate come dei rulli su un supporto rustico ma funzionale. Per guardarle bisognava scorrere manualmente i nastri, creando così un assonanza visiva con la pellicola cinematografica, e implicitamente con la rappresentazione del tempo che passa. I soggetti erano spesso molto simili (gettonatissime le attività quotidiane più semplici, o legate al ciclo notte/veglia), e per questo ho particolarmente apprezzato la sequenza patriottica dei tre ghiaccioli (uno verde, uno bianco, uno rosso) che scatto dopo scatto si sciolgono al sole, per ridursi a miseri stecchini di legno (infilati nel naso di qualcuno).
Motivo 2: Elegantissimo il concerto dei M.O.F. 5tet, bravi e belli.
Motivo 3: Sangria e birra a prezzi popolari (che va bene radical chic, ma non per questo astemi!).
L'unica ragione di rammarico, che esula dalla responsabilità dei provetti architetti, è relativa al giardino stesso, spelacchiato e un po' patetico. Potrebbe essere uno dei posti più belli della città, invece – oltre ad essere sempre chiuso (aprire quattro giorni all'anno significa essere sempre chiusi, questo lo specifico per i puntigliosi) – è lasciato sconnesso e misero. Al posto delle piante - tutte sradicate, ad eccezione dei tre alberi più grandi - è rimasta l'erbaccia incolta. Mi piacerebbe sapere se saranno in futuro presi provvedimenti per risanarlo, restituirlo.

domenica 29 maggio 2011

AIUTATEMI CHE SONO MESSO MALE

 
Serata frizzantina alla porta degli angeli (casa del boia non si dice più, è out: sapevatelo!): vino rosso spinato direttamente dalla damigiana, abiti leggeri e il sole che tramonta sull'erba, sorrisi svagati e le opere autoironiche di Stefano W. Pasquini a dare un senso al tutto. 
Come al solito mi trovo in imbarazzo a commentare qualsivoglia forma di arte contemporanea. Non ho mai del tutto metabolizzato la dissoluzione dell'aura, e se razionalmente comprendo il significato e l'importanza di tanti lavori (cito a caso qualche esempio abnorme: le pillole di Damien Hirst, il medio alzato di Cattelan, la kefia di Mona Hatoum), nel momento in cui me li ritrovo di fronte formulo inevitabilmente lo stesso pensiero stolto: "e va be?". 
Da parte mia la buona volonta c'è sempre, ci provo ogni volta: ieri quindi  ho passeggiato attenta attorno alla struttura irregolare esposta al piano ammezzato, una composizione di vecchie mensole e qualche libro; ho saggiato la consistenza fisica della carta di cui era composta l'istallazione allestita in mansarda, un mucchietto di fogli disordinati, sui quali erano stampate le immagini di un cane e di alcuni operai; vicino all'ingresso ho studiato con interesse lo scatolone che si fingeva un autovelox, per misurare la velocità di accesso degli ospiti. Il risultato non cambia, e a questo punto si tratta sicuramente di un problema mio, le parole mi escono di bocca senza che io riesca a trattenerle: "e va be?". 
Chiunque fosse capace di suggerire un giudizio più acuto è invitato a lasciare un commento, io di per me non ce la faccio. Riesco solo a commentare l'evento, e quello devo dire è stato soddisfacente (cfr: incipit). 
A differenza di quanto accadeva questo inverno, quando alle inaugurazioni ci si ritrovava sempre in quattro gatti, ieri la porta monumentale frullava di gente e chiacchiere, inoltre a vivacizzare l'atmosfera già spensierata ha contribuito la performance, della quale invece posso scrivere - senza scrupoli di coscienza - che sì, mi è molto piaciuta. Nel vivo della serata diverse persone confuse nella folla (giuro, c'era veramente tanta gente) hanno iniziato ad alta voce a dialogare tra loro, simulando il discorso frammentato e informale della chat. Argomento della "stanza": la ricchezza sperperata da bisnonni e parenti donnaioli, la decadenza dei titoli nobiliari e degli agi della buona borghesia, la condizione sradicata e nostalgica delle nuove generazioni. Nello svolgersi veloce della conversazione (una farsa amara, comica in senso pirandelliano) sono riuscita a sentirmi coinvolta. Ho ritrovato in qualche modo il filo del discorso benjaminiamo sulla necessità politica dell'arte, che sapevo presente teoricamente anche nelle opere esposte, e mi sono sentita bene.

sabato 28 maggio 2011

BIBLIOTECA VIVENTE


Ieri pomeriggio alla Festa delle Famiglie è stata organizzata una living library. Non so quanto sia effettivamente conosciuto questo tipo di iniziativa, spiego quindi brevemente come funziona e a cosa serve. La biblioteca vivente è una raccolta di persone-libro, ovvero persone disposte a raccontare la propria storia come se fosse una narrazione, ad offrire il loro patrimonio di esperienze alla città. Il suo obiettivo è abituare la gente a non  "giudicare un libro unicamente dalla copertina", a non lasciarsi condizionare dagli stereotipi e dai pregiudizi. Propone ai suoi "utenti" un catalogo di luoghi comuni (la donna musulmana, il gay, etc), ciascuno corrispondente ad una persona-libro che può essere prenotata e presa in prestito, sfogliata. L'iniziativa è fondamentalmente un mezzo informale per facilitare il dialogo tra persone che difficilmente forse avrebbero l'occasione di parlare in modo tanto sincero, aperto appunto come un libro.
Per quanto riguarda l'organizzazione di ieri pomeriggio posso solo spendere dei grandi complimenti.
E' vero: forse il catalogo non era ricchissimo (sono sicura che crescerà sempre di più, edizione dopo edizione) ma l'atmosfera era serena e invitante, e il libro che ho preso in prestito mi ha insegnato molto, suggerendomi  nuove prospettive attraverso cui guardare alla realtà - e non svelo nè il titolo nè il contenuto, chi è curioso la prossima volta deve partecipare! - .

DONNE ALLO SPECCHIO


Giovedì sera l'Accademia della Follia ha presentato alla città il laboratorio condotto in collaborazione con il dipartimento di salute mentale, concluso nella produzione di un filmato ispirato alle poesie di Alda Merini. 
Per avvicinare il pubblico alla comprensione del lavoro svolto, la serata avrebbe dovuto seguire una scaletta abbastanza anomala, ma potenzialmente molto interessante.
Questo è il riassunto di quello che avrebbe dovuto succedere:
Il regista/attore Claudio Misculin racconta – ovviamente per sommi capi ed aneddoti - la vita della poetessa, suggerisce un impressione della sua personalità e la valenza delle sue scritture riferite all'esperienza del manicomio. All'interno di questa cornice si inseriscono cinque azioni teatrali, e i corrispondenti cinque momenti estrapolati dal filmato prodotto, proiettato per intero in chiusura. Obiettivo del percorso: permettere agli spettatori di partecipare alla costruzione fisica dell'azione, avvicinarsi alla quotidianità della pratica laboratoriale, e seguirne l'evoluzione video.
Ecco quello che in verità è successo:
Le premesse sono buonissime: il regista introduce a proprio agio, ben calato nel ruolo di collante carismatico, le attrici - un pochino impacciate ma volenterose (nessuno pretende qualcosa di diverso) – si impegnano in interpretazioni coinvolgenti, le poesie incredibili tengono assieme il tutto. Per i primi dieci minuti. Poi la narrazione inizia a scricchiolare: il video iniziale si impalla (evvabbè, può capitare, anche se non dovrebbe), il secondo video non sembra avere problemi ma non è quello giusto (la cronologia del racconto comincia a vacillare), Misculin furibondo alza il medio rivolto ai tecnici (personalmente comprendo la rabbia, ma non la maleducazione esibita), un ulteriore video si sgrana e si interrompe sul più bello, la serata sembra definitivamente implodere. Si decide di continuare solo con le azioni teatrali, anche se il nervosismo di tutti è palpabile e la rappresentazione ne risente.
Nel trambusto l'opinione che mi sono fatta dello spettacolo è che sarebbe stato bello, sarebbe stato veramente intenso. Il video completo proiettato a fine serata - per fortuna senza particolari incidenti - è riuscito parzialmente a compensare l'insoddisfazione per la rappresentazione fallita: autoironico, soluzioni visive e musicali di grande impatto, un'interpretazione della poetessa penetrante, lucida e assolutamente convincente (bravissima l'attrice). L'amaro in bocca all'uscita dalla sala però rimane. Non so quali ostacoli abbiano impedito alla cabina di regia di lavorare come avrebbe dovuto, so che è quasi delittuoso schiantare un occasione del genere (importante per il pubblico e per chi a vario titolo è stato coinvolto  nel laboratorio) per dei banalissimi "problemi tecnici".

venerdì 27 maggio 2011

LA SCUOLA CHE VIVIAMO, LA SCUOLA CHE DESIDERIAMO




Atmosfera retrò al centro sociale la Resistenza, in occasione dell'incontro “La scuola che viviamo, la scuola che desideriamo”: sedie di plastica, ghiaccioli alla menta e buone intenzioni. Un folto gruppo di insegnanti, genitori e precari di varia natura e genere (facilitatori, educatori, etc.) si è riunito mercoledì sera per parlare di scuola, per confrontarsi sulla direzione intrapresa dall'attuale istruzione pubblica italiana.
Bello? Bello. Facile? Per nulla.
La serata è partita abbastanza appesantita. Il maestro Mauro Presini (di cui non discuto le qualità professionali, ma quanto a capacità retorica... uso un eufemismo: ci sarebbe qualcosina su cui lavorare) ha infilato per un tempo indefinito un'animata collana di luoghi comuni, battute riciclate e memorie risapute. Un fiume in piena, entusiasta e inarrestabile. Leitmotiv del suo malcontento: il governo vuole i propri cittadini succubi e  ignoranti, ha inventato un linguaggio artificiale per nascondere loro la verità, è a tal punto brutto e cattivo da usare la parola razionalizzare invece di risparmiare. A prescindere dall'opinione personale: discorsi triti, a tal punto rimasticati da ridursi a poltiglia insipida. E non è sempre vero che alcuni concetti, per quanto ripetuti, facciano sempre bene. Quando ci si rivolge ad un pubblico di pari interessati (così è successo mercoledì sera) ripetere serve solo a perdere tempo prezioso, a distogliere lo sguardo dall'urgenza. Fortunatamente ha compensato all'incipit sottotono l'intervento di Elena Buccoliero, che ha parlato della violenza strutturale e culturale implicita nell'attuale sistema scolastico, della parzialità dei suoi criteri di giudizio, della gerarchia malsana che spinge i ragazzi verso “scuole differenziali”, di serie B, considerate tanto dagli alunni quanto dai professori alla stregua di parcheggi. Anche il successivo dibattito ha fornito dei buoni spunti di riflessione, nonostante si sia costituito di pochi ma lunghissimi interventi (l'assuefazione al monologo degli insegnanti è preoccupante). Sono stati toccati ulteriori nervi scoperti: l'oggettiva bruttezza e sporcizia di molti edifici scolastici; l'omertà e il disinteresse dei professori, che temendo il trasferimento non segnalano o addirittura insabbiano i problemi della struttura in cui lavorano; le difficoltà causate dal tetto percentuale imposto all'iscrizione di alunni stranieri; l'idea ridicola di riproporre alle elementari il “mostro unico”. In un contesto del genere, commentava una simpatica signora in rosso, la recente somministrazione della prova Invalsi rappresenta semplicemente l'ennesimo schiaffo. Non preoccupa in modo particolare, ma delude ulteriormente - “e non ne avevamo bisogno” - . Bilancio dell'incontro? La vastità dell'argomento ha impedito di stringere considerazioni più pragmatiche, di ricavare una linea metodologica e di pensiero a cui rivolgersi. Da parte mia credo servirebbero altri appuntamenti, più circostanziati e definiti, per approfondire le singole difficoltà ed esplorare le alternative concretamente a disposizione.

lunedì 23 maggio 2011

FESTA DELLE OASI


Domenica 22 maggio si è svolta in tutta Italia la giornata delle oasi WWF, occasione di apertura straordinaria e gratuita delle molte aree protette dall'associazione. Reduce del grigiume fisico ed esistenziale di questo inverno, ho voluto approfittare dell'iniziativa per redimere le carni pallide al sole campestre, e scroccare magari una prima botta di abbronzatura (che non colora la pelle, ma almeno lava via l'effetto zombie). Sono quindi andata in visita all'oasi più vicina, a vedere le dune fossili di Massenzatica, dalle parti di Mesola. Non avevo ovviamente la benché minima idea di cosa potesse essere una duna fossile, e sono oggi orgogliosa di poter comunicare pubblicamente che... bhe, ora invece un idea ce l'ho. Una gentilissima operatrice ha accompagnato me e gli altri visitatori all'interno della riserva, spiegandoci TUTTO: lo spostamento della linea costiera, la fossilizzazione delle zone sabbiose, le associazioni vegetali (che non c'entrano niente con i banchetti in piazza dei coltivatori diretti), le radici forti delle piante bassettine, l'etimologia delle robinie, il modo più semplice per riconoscere un olmo, la vitalità di una pianta cinese chiamata guarda caso highlander (!!) - (lo ammetto, ora sto inventando, in verità si chiama ailanto) -, e tante tante altre cose ancora. Ero talmente affascinata da questi racconti, da guardare con occhi stupefatti qualsiasi arbusto seccarello si stagliasse nei paraggi. Mi sono quindi persa le guest star della passeggiata: il ramarro (verdissimo, a detta di tutti i presenti) e il picchio. In compenso ho potuto guardare da vicino le pupe, ovvero i bruchi imbozzolati come Tutankhamon nel loro sputo, in attesa di diventare farfalle e morire dopo un giorno (non commento nemmeno, anche se una ragazza davanti a quelle mummie appese ha avuto il coraggio di esclamare “che bello!”, giuro).
Conclusa la passeggiata altri simpatici simpatizzanti dell'associazione hanno offerto a tutti un pic nic rustico e abbondante, con tanto di panini al salame, uova sode, torte salate e torte dolci - ovviamente preparate in casa -, vino bianco o rosso a piacimento, acqua se proprio proprio. Devo aggiungere altro? Mi viene in mente uno spot che girava tempo fa su youtube, e che credo riassuma bene l’impressione che ho avuto della giornata: never say no to panda;)!

domenica 22 maggio 2011

INAUGURAZIONE DI "STRUTTURE", PERSONALE DI DUCCIO GAMELLI


L'inaugurazione è stata abbastanza spentina: cordiale ma anonima. Poche le persone presenti, un aperitivo misero apparecchiato nella terrazza che guarda Via Darsena, la solita desolazione dei Magazzini Generali. L'atmosfera della serata era anche buona, informale e interessata, ma il vuoto degli stanzoni pesava sopra ogni passo, a ricordare quanto la marginalità della location possa invalidare qualsiasi iniziativa vi si voglia organizzare (e quando scrivo marginalità non mi riferisco ovviamente al decentramento fisico, ma alla disattenzione e all'incuria gestionale). E' veramente un peccato che un posto così ricco di potenzialità venga abbandonato a sé stesso e alle erbacce incolte che vi crescono tutto attorno. Voci di corridoio sussurrano di un imminente chiusura. Ai Magazzini si canta il lamento del cigno, e ad ascoltarlo restano le solite quattro facce... assieme alle opere di Duccio Gamelli, quasi dimenticavo. Non sono una grande intenditrice di arte contemporanea, fondamentalmente ancora devo capire se serve e a cosa serve, cos'è in realtà. Passeggiare in mezzo ai lavori di Gamelli mi è piaciuto, non tanto per questioni di empatia estetica, quanto per l'esercizio di fantasia che mi  ha richiesto. Ho interpretato abbastanza liberamente le sue strutture: nel reticolo dipinto di blu ho visto il Mediterraneo da lontano, nelle creazioni plastiche ho intercettato delle chiocciole fossili, un'attitudine agreste e organica. Basta questo per considerare valida un'esposizione? Aspetto da lettori più attenti e informati di me una qualsiasi risposta.

lunedì 16 maggio 2011

GLI ANTICHI GIOCHI DELLE BANDIERE ESTENSI


Premetto di non essere un esperta di rievocazioni rinascimentali, né tanto meno del gioco della bandiera. Chiedo quindi scusa anticipatamente per qualsiasi bestialità storica o tecnica scriverò in questo post, e invito chiunque abbia pazienza e voglia a correggere i miei errori con un commento.
Sabato sera per la prima volta ho assistito agli "Antichi giochi delle bandiere estensi". Abito in città da diversi anni, e più e più volte ho avuto occasione di guardare i ragazzi delle contrade sbandierare (durante gli allenamenti o alle prove in piazza del municipio), ma non ho mai tentato nei confronti di questa attività un atteggiamento più consapevole. Mi accontentavo di sostare davanti alle loro evoluzioni, godermi cinque minuti di spettacolo e riprendere poi beatamente gli affari miei. Quest'anno ho voluto interessarmi un po'di più a queste manifestazioni, ho raccolto qualche informazione qua e là e ho assistito alla prima competizione. Ora non ho intenzione di descrivere per filo e per segno ciò che è successo: chi c'era lo sa da solo, chi non c'era avrà avuto di meglio da fare. Provo però a raccogliere delle impressioni sparse, qualche idea vaga e un quesito pratico sulla gestione dell'evento.
IMPRESSIONI SPARSE: la serata si è aperta con l'incredibile performance singola di Andrea Baraldi, per la contrada di San Giacomo (per chi non avesse la minima idea di ciò di cui sto scrivendo, qui si può vedere una sua esibizione dell'anno scorso: http://www.youtube.com/watch?v=LggOEQ1Tkzk). Bravo bravissimo, da restare a bocca aperta, ma mi domando quanto il suo straordinario esercizio possa essere legittimamente avvicinato alla tradizione rinascimentale (e ora mi riferisco a lui perché è stato memorabile, ma ovviamente la domanda è rivolta all'intero repertorio contemporaneo). Gli sbandieratori del Quattrocento facevano veramente numeri del genere, esisteva già una disciplina? Non credo, ma a proposito mi vengono in mente le riflessioni di Hemingway sulla decadenza della corrida: nel massimo fiorire dell'arte la corrida veniva creduta dai suoi contemporanei traviata rispetto la tradizione e indebolita. Forse succede qualcosa del genere anche nel mondo delle bandiere, e la non coerenza dell'attuale competizione rispetto l'usanza antica andrebbe semplicemente interpretata come evoluzione, arricchimento. Personalmente tuttavia mi impressiona come uno spettacolo di giocoleria, per quanto di altissimo livello, possa suscitare oggi tanto clamore.
IDEE VAGHE: stupefacente anche l'esibizione corale della squadra di San Luca: ricca e corposa, elegantissima e allo stesso tempo inquietante la coreografia. Curioso come uno spettacolo per molti versi femminile (i passi di danza, le bandiere che volteggiano come grandi gonne attorno alle gambe) possa essere interpretato e inteso come esibizione di  fierezza virile. Mi rendo conto di scrivere poco meno di una bestemmia, a me ricorda un poco la danza del ventaglio (http://www.youtube.com/watch?v=OfrZwUFEuyY&feature=related).
QUESITO PRATICO: Insostenibile assistere all'intera manifestazione pressati nella folla, in punta di piedi per non farsi sovrastare dalla calca. Dove sono finiti gli spalti che venivano montati in piazza gli scorsi anni? Mi sono molto divertita, se fossi stata seduta mi sarei divertita ancora di più.

sabato 14 maggio 2011

NOW IS THE MONTH OF MAYING




Ieri sera l'associazione PuntoZero proponeva ai Magazzini Generali: “Verticali – 10. In parole povere...”. Ovvero? Ci ho dormito sopra una notte e ancora non ho capito cosa veramente significasse questo titolo, ma non credo sia un problema.
Gli organizzatori avevano vagamente anticipato la scaletta dell'evento: aperitivo e spettacolo di teatro-danza, 5 euro all'ingresso e si risolve il venerdì sera.
Arrivo puntuale alle otto e mezza, ma mi rendo conto sarebbe stato meglio arrivare in ritardo, o magari stare direttamente a casa. Desolazione: pochissime persone, vicino all'ingresso un tavolo apparecchiato con qualche bottiglia di aranciata e di birra, un paio di ciotole per le patatine e i taralli. Ho già pagato la quota e mi tocca restare, quindi cincischio, fumo, mi guardo intorno per una buona mezz'ora.
Inizia lo spettacolo e sono sempre più scettica: ci spostiamo tutti in uno degli stanzoni dell'edificio, ci sediamo in file ordinate e aspettiamo. Di fronte al pubblico, occultati allo sguardo da un grande telo chiaro, giacciono a terra due corpi, che lentamente si muovono, strattonano, si tendono, sempre coperti da questo lunghissimo lenzuolo. Porcamiseria il contemporaneo, questo è il mio primo pensiero. Il secondo, bhe, il secondo pensiero non c'è. Perché uno degli attori (sono giovani, un ragazzo e una ragazza) si trascina piano piano fino ad arrivare quasi davanti al mio naso, e da ingobbito che era si libera della stoffa in cui era ravvolto come un baco da seta, e si raddrizza. Ha una maschera di carta sul volto e le scarpe da ginnastica ai piedi e sembra volare. Inizio a credere a quello che sta succedendo. 
La musica intensa nelle orecchie, a tratti il silenzio assoluto, lo spazio bianco e nudo, il buio della notte fuori dalle grandi vetrate: i due ragazzi parlano, chiamano, danzano, cadono. Il pubblico non c'è più: è stato accompagnato con garbo all'interno della storia, le sedie sulle quali tutti sedevamo ordinati sono rimaste vuote.
Non racconto di più perché non servirebbe a comprende cos'è successo: io c'ero e tuttora non l'ho capito. So che è stato molto emozionante, e che se inizialmente ero dispiaciuta che solo in pochi si fossero interessati all'evento, a fine serata ne ero - egoisticamente – contenta. Nessuno infatti ha dovuto restare “dall'altra parte” della narrazione, assistervi da spettatore. Tutti hanno potuto entrarci e contribuire alla sua costruzione, anche con la semplice presenza. Inoltre non essendoci  pubblico a guardare, non c'era nemmeno finzione: era tutto vero.
Grandi applausi quindi sia alla coreografa che ai due interpreti (lei soprattutto per la danza, lui soprattutto per la recitazione: finalmente una voce credibile!). La rappresentazione merita di essere riproposta, e spero vivamente che in futuro sia possibile riorganizzarla nello stesso luogo. Immaginarla in un teatro tradizionale, per la strada, in qualsiasi altro posto che non sia lo spazio vacuo e stellare dei Magazzini Generali non è possibile. Credo che una buona parte della sua riuscita sia proprio da attribuire allo stanzone immacolato in cui è stata presentata, alle risonanze fantascientifiche di tutto quel bianco abbacinante.
A fine serata è stata fatta passare di mano in mano una petizione affinché i Magazzini Generali possano continuare la loro attività di promozione culturale. Petita Iuvant? Chissà.