domenica 24 luglio 2011

LAST KILLERS AL RELOAD



Dopo settimane di serate solitarie e telefilm (lavorare d'estate stanca, è un dato di fatto) finalmente ieri sera sono uscita dal guscio del mio divano e mi sono ributtata a calci fuori casa. Sono arrivata al Reload tardi, giusto in tempo per sentire le ultime canzoni dei Last Killers e fare quattro chiacchiere prima del temporale, ma qualcosina al volo sul festival credo di poterla scrivere. La location boschiva vale da sola la serata, racchiusa nell'intimità dalle mura ed esclusa dal tempo triste della città, con i tavoli da sagra immersi nel verde frondoso del parco e le installazioni oniriche tutto attorno. Piace assai. Buono anche il servizio "bibbite": prezzi adeguati e birra finalmente di qualità (ma senza troppi tiramenti). Il concerto poi, almeno per i pezzi che ho potuto ascoltare, mi è sembrato valido: presenza scenica carismatica, repertorio garage rock apparentemente svagato ma tecnicamente complesso e curatissimo, ritornelli abbastanza orecchiabili da smuovere immediatamente gli animi, i corpi, le gambe, le braccia.
Peccato che non si smuovesse nessuno. Io arrivavo da due ore di dibattito sui costi della politica, con tanto di onorevoli e consiglieri regionali straripanti, e sinceramente non mi sentivo abbastanza in forza per affrontare il sottopalco. Non voglio autogiustificarmi, ma quando gli anni universitari lasciano il posto al precariato cronico, a cinque contratti a progetto incrociati come un tetris per non riuscire comunque ad arrivare a fine mese, un po'di spossatezza anche ci sta. Mi chiedo però dove fossero ieri tutte le me stesse più giovani, le studentesse che ora hanno l'eta che avevo io quando non perdevo una canzone, un'occasione, quando quasi correvo per tuffarmi in mezzo alla gente e abbandonavo i sandali nell'erba per saltare più alto. L'unica a ballare (grandiosa!) era la ragazza della bancarella di orecchini a forma di liquirizia. Possibile che il Reload sia frequentato solo da disoccupati stanchi e precari ancora più stanchi? O - in alternativa - possibile che gli studenti in forma non abbiano più voglia di ballare? Seduti davanti a me stavano una giovinetta-allstar abbarbicata a un giovanotto-birkenstock, che forse - ma solo forse- facevano quarant'anni in due. Lei a un certo punto si è alzata in piedi e ha provato a trascinare lui per il braccio, verso la musica veramente irresistibile. Lui ha opposto resistenza, l'ha ritirata a sé con fermezza e ha sancito l'immobilità di entrambi mettendole la lingua in bocca. Bello l'amore passionale, ci mancherebbe, ma provare un minimo slancio verso qualche altra cosa non sarebbe poi così male.

domenica 3 luglio 2011

EMERGENCY DAYS: LA PRIMAVERA ARABA + MALAPIZZICA


Ci sono dei momenti in cui la libertà imprevedibile degli anni universitari mi ritorna viva in mente, e il ricordo si cristallizza in una grande bolla di rimpianto, che mi schiaccia al suolo più di quanto non mi appesantisca quotidianamente l'affastellarsi degli impegni e il circo noioso delle responsabilità. Le giornate in cui si tengono gli Emergency Days sono il momento perfetto per rispolverare tutta l'autocommiserazione di cui dispongo (lo ammetto: è tanta) e farsi venire qualche buon nervoso: non avrei voluto perdere un dibattito, uno spettacolo, un concerto. E invece ho ovviamente mancato quasi tutto. Chi ha passato quelle serate davanti alla tv o in gelateria si senta pure male: avrebbe dovuto essere in piazza.
Dopo questa premessa necessaria, provo a raccontare gli unici due appuntamenti a cui sono riuscita a partecipare.
LA PRIMAVERA ARABA: L'incontro di giovedì pomeriggio avrebbe dovuto essere un approfondimento sugli sconvolgimenti vissuti nell'ultimo anno dal cosiddetto "mondo arabo" (definizione intrinsecamente problematica, generalista e superficiale,  la cui diffusione è già sintomatica della miopia dello sguardo "occidentale" sul fenomeno, com'è stato fatto notare da Edda Pando). La discussione di fatto ha sbandato più e più volte rispetto l'asse centrale attorno al quale avrebbe dovuto convergere, ma nessuna delle sue deviazioni mi è sembrata inutile. Si è passati attraverso la scommessa del migrante che affronta il mare con il racconto del reporter Giulio Piscitelli; ci si è soffermati sulle incongruenze della legislazione italiana in materia di immigrazione con Edda Pando (che ha richiamato i presenti a fare politica nel senso originario del termine: fare polis, costruire stato e cittadinanza); Cecilia Strada come al solito ha spostato l'attenzione verso l'Afghanistan, e come al solito è stato impossibile non prestare ascolto alla semplicità disarmante delle sue parole (a chi le chiedeva cosa può fare il singolo per aiutare ha risposto molto concretamente che basterebbe, ognuno nel proprio piccolo, "rompere i coglioni": a chi posteggia in doppia fila, a chi non rispetta gli stranieri, a chi impedisce ai senzatetto di salire sull'autobus, a tutti i piccoli soprusi quotidiani di cui si è testimoni). L'intervento di Karim Bugaighis è stato l'unico ad affrontare di petto la "primavera araba", ed è stato a mio avviso completamente destabilizzante. Karim, che abita a Ferrara da molti anni, ha ricomposto come se fossero i pezzi disordinati di un puzzle i significati diversi del suo essere libico in Italia: memorie di infanzia, la violenza di un regime a cui ha assistito inconsapevole, l'indifferenza forzata con cui ha accolto la propria condanna a morte - colpevole di essere partito per l'Europa e di non essere più tornato - . E ancora lo scandalo e infine l'accettazione dei rapporti a dir poco cordiali intrattenuti dal nostro governo e Gheddafi, il silenzio scaramantico condiviso dai connazionali immigrati quando le rivolte iniziavano a diffondersi, la preoccupazione ma anche la giustificazione dell'intervento NATO. Ha parlato con calma, ma la voce a tratti sembrava strozzarglisi in gola. Ha concluso ripetendo al pubblico "Spero che ce la caveremo", e quasi rivolto a sé stesso, per convincere le proprie paure più che per risolvere quelle degli altri: "Sono sicuro che ce la caveremo".
MALAPIZZICA IN CONCERTO: Ad essere sincera, dopo aver ripercorso le tappe salienti dell'incontro sulla primavera araba faccio fatica a scrollarmi tutto di dosso, e a scrivere qualcosa sulla serata di venerdì. Tuttavia, per recensire una festa strutturata in iniziative tanto diverse, devo cercare di riappropriarmi di sensazioni altrettanto diverse. Faccio un bel respiro e ci provo.
Quando assisto ad un concerto di pizzica mi sento quasi sempre dilaniare: da una parte mi strattona la noia, il disprezzo intellettuale per il pubblico che si intrattiene in canti e danze diventati troppo di moda (scriveva qualche anno fa un mio amico "bisognerebbe proibire di ballare la pizzica a chi ha meno di sessant'anni e/o non presenta una congrua dose di calli da zappa sui palmi delle mani"); dall'altra parte mi tira per le braccia e per le gambe la musica  incalzante, il desiderio di buttarmi in mezzo alla folla. Sotto il palco dei Malapizzica ho cercato il compromesso: un balletto e basta, abbastanza per sfogarmi ma anche per sentirmi scoordinata e fuori luogo. Il resto del tempo l'ho passato ad ascoltare le ballate amorose, strazianti, a crogiolarmi nell'accordo delle voci e degli strumenti, ad osservare a mezzo metro da me il calderone disarmonico di mani e ginocchia, saltelli sbilenchi, madri sudate e improvvisati ballerini, bambini furibondi e ragazze con lo scialle. La pizzica, con i suoi suonatori "ipermeridionali" - anche quando vengono da Cinisello Balsamo - e le gonne alzate sopra le cavigli, conserva sempre un certo fascino (malgrado tutte le mie reticenze).